lunedì 23 dicembre 2013

Saturnalia

Secondo la tradizione, dopo essere stato detronizzato dal figlio Giove, il dio Saturno fu relegato su un'isola, dove dimora eternamente addormentato, avvolto in bende di lino: quando si sveglierà e rinascerà, segnerà l'inizio di una nuova età e di un nuovo mondo.
Per questo motivo la statua del dio presente nel tempio ai piedi del Campidoglio era anch'essa avvolta in bende, che venivano sciolte e tagliate in occasione dei Saturnalia, festività invernali che si svolgevano a Roma nel periodo corrispondente ai giorni fra il 17 e il 24 dicembre.
"Sciogliere il dio" significava liberarne la forza antica - forza che è ambivalente, in quanto Saturno è il dio dell'ombra e della luce, della fine e dell'inizio.
Rea porge a Crono una pietra fasciata,
facendogli credere che si tratti
del figlio Giove appena nato
Al pari di Giano, egli ha un volto duplice, che guarda al caos e al cosmo al tempo stesso.
Perciò i Saturnalia erano la festività "del rovesciamento", in cui l'ordine conosciuto era sovvertito, per lasciare spazio a una nuova dimensione comunitaria: gli schiavi erano temporaneamente liberati ("sciolti dai loro vincoli", esattamente come Saturno), ci si scambiavano doni, si festeggiava con grande euforia e veniva eletto un re-burla, come accadeva (secoli più tardi) nelle Feste dei Folli medievali.
Si attuava, insomma, un vero e proprio rovesciamento, una "vita carnevalesca" (per dirla con Bachtin) basata sull'abolizione dell'ordinamento gerarchico, la mescolanza dei valori e dei fenomeni e la profanazione (oscenità, scherzi volgari...).
Proprio in funzione di questa sua duplicità, il carnevalesco è ambivalente e rappresenta in un'unica occasione le facce opposte di un'unica medaglia. Per questo le festività dei Saturnalia, per quanto sfrenate e goliardiche, contengono una suggestione riflessiva: celebrando la vita, si rammenta la morte - alla quale si giunge attraverso i rituali dedicati al "dio nero" Saturno, in un kyklos destinato a ripetersi.
«Il riso rituale era rivolto a qualcosa di superiore: si beffeggiava e rideva il sole (dio supremo), gli altri dei, il supremo potere terrestre, per costringerli a rinnovarsi e rigenerarsi. Tutte le forme di riso rituale erano legate alla morte e alla risurrezione, all'atto della riproduzione, ai simboli della forza produttiva. Il riso rituale reagiva alle crisi nella vita del sole [...], alle crisi nella vita della divinità, nella vita del mondo e dell'uomo (riso funebre). In esso la derisione si fondeva col giubilo.» (Michail Bachtin)
Saturnalia

sabato 21 dicembre 2013

Verso il bianco: il Solstizio e le fiabe della consapevolezza

Sono giornate di luce e biancore: ogni mattina, la nebbia nella prima parte del tragitto che compio in macchina ogni giorno, per recarmi al lavoro; e poi il sole, che rompe il velo per ciò che rimane della strada.
Istintivamente, in questo periodo non faccio che pensare (meglio: sentire) il colore bianco.
Bianco di coltre (nevosa, fredda; e ancora... il bianco lattiginoso della nebbia... e quello purissimo della brina): tutto mi riporta al sonno, a quella delicatezza di cui ho parlato spesso e che tanto mi è cara.

Ricostruzione della decorazione
della tomba di Patron
Il bianco è, per eccellenza, lux in tenebris. Colore dei morti e, al contempo, della rinascita.
Un interessante studio di Simone Rambaldi, pubblicato su Grisendaonline nel 2001, propone all'attenzione del lettore alcune raffigurazioni romane dell'Oltretomba, rinvenute in un edificio sull'Esquilino (databili 50-40 a.C.), sulla tomba di Patron (I sec. a.C.) e sulla tomba degli Octavii (III sec. d.C.).

Si tratta di scene molto luminose (soprattutto la bellissima decorazione della tomba di Patron, la cui parte centrale era occupata dalla raffigurazione di un lussureggiante spazio naturale, abitato da piante e uccelli e pervaso da una luce rassicurante), che ci trasmettono l'immagine di una vita gioiosa nell'aldilà - almeno per coloro che in vita si sono comportati rettamente.
Lux in tenebris, appunto: anche nella "morte" del periodo solstiziale è possibile trovare la luce, la "ragione" che rende necessaria la nekya.
Compiamo un viaggio periglioso per crescere, per rinascere, per acquisire nuova consapevolezza.

Quest'anno, ho voluto concentrarmi sulle fiabe. Da Barbablù a Cappuccetto Rosso; da Vassilissa e la Baba Jaga a Rosabianca e Rosarossa... Si tratta di storie che raccontano un percorso difficile, capace di portare alla rigenerazione solo attraverso un cammino periglioso nella Terra dei Morti.

La fiaba di Barbablù illustrata da © Paolo Savelli
Cammina nel "bosco oscuro" facendosi luce con un teschio la coraggiosa Vassilissa, dopo aver ricevuto la sua iniziazione dalla Baba Jaga (e dopo aver ricevuto in dono una consapevolezza basata sulla "giusta misura" e sull'equilibrio); arriva a sanguinare la sposa di Barbablù (e «niente riusciva a fermare il sangue» che usciva dalla chiave), prima di ribellarsi dall'oppressione dello sposo-bestia che la minaccia: «Di consapevolezza... morirai»; e la Fanciulla senza braccia si veste di bianco (il colore dei morti) per affrontare un lungo e difficile vagabondaggio, che la condurrà alla rinascita.

Norvegia, casa con betulla
Foto di © Orsa Isbjørn
Il significato di questa fase "declinante" del cammino ciclico dovrebbe essere proprio questo: scendere in un n(l)uminoso e bianco oltretomba, sostenere e comprendere la luce "dei morti" per risorgere a nuova vita quando sarà tempo.
Se devo essere sincera, questa è la prima volta che concepisco il Solstizio come una parentesi di luce (per quanto fredda essa possa essere...), anziché come un tragitto in osbcuro. Ne sono lieta, mi piace... (Ri)vedo il sole in fondo al sentiero, all'interno della mia casa - dove potrò infine ritrovarmi.