mercoledì 29 febbraio 2012

Del risveglio. E del silenzio...

Avete mai visto una Bella Addormentata svegliata di soprassalto? O Biancaneve destata dal berciare di folle inferocite, di donne volgari, di personaggi dalla dubbia moralità? Per carità.
Le fiabe, come sempre, trasmettono verità profonde - senza dar l'impressione di volerci fare la ramanzina.
Potrei scomodare Propp, su questo argomento. E invece (data la modestia di queste paginette virtuali) preferisco andare per immagini e suggestioni.

Ci stiamo avvicinando al Risveglio a passi da gigante (da gigantessa, sarebbe meglio dire...): le temperature che si alzano, il sole che si fa sempre più caldo, la terra che si risveglia. E' ora di seminare, di preparare orti e giardini. I gatti si fanno giorno dopo giorno meno indolenti: vogliono uscire, tornare ad esplorare il territorio... Segnali esteriori di una rinascita che viene dal profondo, ctonia e inarrestabile. Senza di essa, il sonno sarebbe eterno e si entrerebbe nella dimensione ou-topica del "Falciatore".
E invece no: ci si ri-genera, si riprende il Cammino nel sole, nella frenesia dei preparativi necessari per il ritorno alla Vita, dopo la parentesi d'acqua e di oscuro.
A patto, naturalmente, che si sia ben lavorato (prova ne saranno le nostre esistenze!) - e che ben si intenda il valore del Risveglio.
Molte persone (che non hanno intrapreso un determinato Cammino) considerano il periodo che precede l'Equinozio semplicemente come una fase di frenesia vegetativa e metabolica - e, ahinoi!, lo stesso fanno anche coloro che dovrebbero una maggiore consapevolezza in materia...

Sotto il segno dell'(umana) arroganza e della mancanza di consapevolezza,
un risveglio può risultare spiacevole...
Ogni anno, infatti, mi meraviglio della "faciloneria" con cui viene affrontata la "fase di risalita": come se il Risveglio non avesse bisogno di delicatezza, di consapevolezza e di una precedente purificazione (nelle fiabe spesso rappresentata simbolicamente dal viaggio dell'eroe nelle regioni del buio). Il ritorno alla luce non può prescindere dalla fase di nigredo. E guardarsi allo specchio, si sa, non è facile per nessuno.

Per quel che mi riguarda, preferisco (in queste settimane come non mai!) la via del Silenzio, che contrappone la parola (spesso ridondante, superflua; appannaggio di un sistema oppressivo maschile) alla Parola magica.
A tale proposito, ritengo interessanti alcuni passaggi del bellissimo romanzo di Laura Pariani La valle delle donne lupo.
«Però adesso basta. Ha parlato troppo. Il mondo è avvelenato dalle parole. Le parole sono una trappola. Si comincia a morire attraverso la bocca, come i pesci, diceva sopà: era uno che parlava poco, diceva che lingua sciolta è all'uso delle beghine; che l'uomo nelle situazioni difficili più risparmia la lingua e meglio avanza verso il suo scopo. Chiaro che lo diceva perché era maschio: agli uomini non piace se le donne parlano; epperciò loro tiran fuori sempre sentenze dei seculòrum per convincere le donne a tacere. [Lara!] A parte questo, lei è convinta che, efforse sì, bisognerebbe trovare un altro modo di esprimersi, un nuovo linguaggio in cui si possa comunicare con leggerissimi segni, come gli animali. Ci rendiamo conto di come le bestie sono libere senza il nostro armamentario di paroloni grdiati a voce scannarozzata?» (Laura Pariani, La valle delle donne lupo, p. 186)
Al cattivo uso della parola assistiamo tutti i giorni: nei talk show televisivi, nelle chiacchiere sui social network, sulle polemiche (sterili, inutili) portate avanti da noi stessi, amici, conoscenti, familiari... Viceversa, la Parola magica, per esprimersi, ha bisogno di un codice tutto suo, fatto di silenzio e di parole confuse, masticate e rimasticate, rese incomprensibili per il resto del mondo: le distrazioni non sono ammesse.
«Ché ogni forza sta nella lingua, nella parola ben masticata nella testa, la sciura non lo sapeva? Naturalmente lei sta pensando della parola di preghiera, giusta e pesata, non del purparlé che fa solo schiuma di bocca.» (p. 113)
 Distrazioni e clamore non sono ammessi: il rumore inutile è blasfemo... Ed esiste forse clamore più stupido e dannoso di quello provocato da ruspe e lacrimogeni in Val Susa?




A voi commenti e riflessioni. Io preferisco non aggiungere altro.

venerdì 24 febbraio 2012

Della conclusione del Cammino invernale - Parte II

♦ II parte: maschere e risvegli ♦
I parte



Dalle radici pre-cristiane del "nostro" Carnevale al symbolum della maschera il passo è breve...
Ovvio che in questo post non pretendo di scrivere un trattato accademico sul simbolismo di questo complesso periodo. Non è davvero il mio intento né sarebbe questa la sede più opportuna...
Tuttavia il fil rouge che unisce queste suggestioni attraverso il tempo e lo spazio mi pare abbastanza evidente; e la maschera, devo ammetterlo, mi sembra l'immagine più evocativa, la più adatta a riassumere l'insieme di suggestioni che accompagnano il dipanarsi del Cammino nell'ultima fase dell'inverno.

Maschera come emblema di morte, come veicolo tra un mondo e l'altro - metafora estrema che è viaggio e superamento del limite.
Donato Bosca ricorda come l'etimologia del termine "masca" (la strega piemontese per eccellenza) possa essere ricondotta all'idea di metamorfosi cui il mascheramento presiede:
«Secondo questa teoria dal verbo arabo masakha, che in una sua accezione significa "trasformare in animale", si arriva al sostantivo maskh, che indica l'operazione stessa della trasformazione.»
La prima suggestione è dunque di tipo visivo e rimanda senz'altro all'immagine della maschera: le masche, infatti, amano ricorrere alla metamorfosi per portare a compimento i loro (nefandi!) propositi. Le si può incontrare trasformate in cane, gatto, caprone o gallina, nelle ore di "confine", quando la campagna è immota... e allora conviene recitare forte tutte le preghiere che si conoscono!
La seconda suggestione (a mio avviso più pertinente) è invece di tipo uditivo, legata alla parola:
«"Masca" è un nome occitano che indica lo stile malefico di alcune donne. Non sai che le streghe borbottano scongiuri? Murmurant carmina? Gli spagnoli dicono mascar per masticare, biascicare, da cui il verbo "mascellare", ossia bofonchiare insulti e orazioni.» (D. Bosca, Masca, ghigna fàussa, pp. 16-17)
Parola rovesciata - in quanto parola magica; parola travestita, mascherata, resa indecifrabile secondo i canoni del linguaggio comune.
In ogni caso la "maschera" ci riporta all'ou-topico, all'incontro fra mondi contrapposti e al tempo stesso comunicanti - incontro che conduce allo svelamento e non di rado alla morte.

Del resto, l'analogia tra la morte e la mascherata (la Morte mascherata!) è antica e percorre indenne i secoli: dalle maschere funerarie a quella di Medusa, per giungere sino a La mascherata della Morte Rossa di E. A. Poe:
«Nelle prime sei sale batteva febbrile il cuore della vita e le maschere turbinavano gaie. Così, di ora in ora, la festa si trascinò sempre più pazza, finché, d'un tratto, l'orologio non prese a battere la mezzanotte. Allora la musica cessò di colpo, i danzatori interruppero le proprie evoluzioni e ogni movimento si irrigidì. Erano ben dodici i colpi che la campana dell'orologio avrebbe dovuto scandire; ci sarebbe stato più tempo perché la riflessione si insinuasse nella mente dei più folli gaudenti.
Ed ecco, prima che l'eco dell'ultimo rintocco si fosse del tutto perduta nel silenzio, molti fra la folla ebbero modo di notare la presenza di una strana maschera, sin allora sfuggita all'attenzione generale. La voce di quella nuova presenza si sparse rapidamente attorno, sussurrata di bocca in bocca, finché dall'intera compagnia non si levò un brusìo generale di disapprovazione e sopresa, presto degenerato in esclamazioni di terrore, di orrore e di disgusto.»
(E. A. Poe, La mascherata della Morte Rossa)
E' lo sterminatore che ritorna, sempre - camaleontico e capace di camuffarsi dietro qualsiasi sembiante. Anche quello (paradossale, quasi ironico!) di una Mas(cher)a...

Eppure, perfino dalla morte profonda del periodo post-solstiziale ("carnascialesca" intorno a Candelora) si può rinascere. Lo impone la ciclicità del tempo.
In questa dimensione, dunque, il Risveglio diviene centrale. Senza risveglio, la morte/sonno sarebbe eterna - annullamento dell'io nel regno dell'ou-topia (che è poi la minaccia più temibile, sbandierata dagli sterminatori d'ogni tempo e luogo). Questo ritorno alla coscienza, alla "centralità", deve avvenire secondo modalità precise, passando (con il dovuto rispetto!) attraverso le necessarie pratiche di purificazione. Senza moderazione, silenzio e consapevolezza, il Risveglio (qualora dovesse avvenire) può risultare pericoloso, nefasto più del sonno medesimo.
Su questo argomento, ho in mente un paio di "rimandi visivi" che mi sembrano utili (pur nella loro semplicità) a spiegare ciò che intendo - un concetto (quello della pacatezza) che mi sta particolarmente a cuore. Le posterò al mio ritorno da Roma...
Per il momento mi fermo qui. :)

giovedì 23 febbraio 2012

Della conclusione del Cammino invernale - Parte I

(Si dica quel che si vuole, io continuerò a chiamarlo "Cammino". Da Dante in avanti è lecito e inequivocabilmente poetico.)

I parte: pettirossi, fantasmi e silenzi oltremondani

Tutto comincia da un pettirosso...

... e dalla grande ondata di freddo che, fino a pochi giorni fa, imbiancava la campagna e teneva sotto rigido controllo la terra.
*C.* consultava il calendario ogni sera, impaziente di cominciare a lavorare al nuovo orto. «Siamo indietro, siamo indietro...» mi ripeteva.
Quanto a me, la mattina mi sistemavo alla finestra per bere il mio caffè. Accanto a me il fido Cagliostro, seduto sul davanzale e intento a scorgere il movimento dei passeri, infreddoliti e affamati, nel campo al di là della roggia.
Intorno alle otto e mezza, arrivava il nostro piccolo ospite. Un pettirosso si affacciava all'angolo del muretto, sbirciando il piattino con le briciole sistemato nella striscia di terreno libera dalla neve. Era puntuale, ma esitante. Vedeva Cagliostro attraverso i vetri e non si azzardava a scendere per mangiare. Preferiva volare via, oltre le ortensie, e tornare solo quando il mio gatto e io ce ne eravamo andati. Lo sorpresi - intento a picchiettare nella ciotolina marrone - una sola volta, dopo essere ritornata in cucina all'improvviso, per prendere qualcosa che avevo dimenticato...
Il pettirosso è uno psicopompo (come lo sono tutti i passeri, sacri ad Afrodite ctonia), abituato a vivere in limine: possiede occhi "sovradimensionati" (come molti dei messaggeri dell'ou-topia), è solito cantare al tramonto o all'alba (momenti di "passaggio" per eccellenza) e il suo piumaggio rossastro è legato, secondo la leggenda, alla morte e all'agonia di Cristo in croce: un minuscolo traghettatore, dunque - che si avvicina alle nostre case solo quando il freddo è più pungente, il Sonno più profondo, la Morte più evidente.

Il risveglio dei Fantasmi
Quello di Candelora è un periodo delicatissimo. Il risveglio primaverile, infatti, ha sì inizio in queste settimane, ma è pur sempre circonfuso di Sonno: è ancora Morte, risveglio in divenire. Possono avvertirsi deboli movimenti oppure, al contrario, il Silenzio può essere completo, grevissimo. E' una zona decisamente ou-topica, in cui il velo fra questo Mondo e quello "Oltre" è sottilissimo e può (deve! Con le dovute precauzioni...) essere sollevato.
I fantasmi della Candelora sono "dormienti": sono fantasmi del Sonno e nel Sonno. E il sonno è silenzio, che può essere rotto solo da una parola "altra" o, tutt'al più, onirica.


Lara e la parola negata
Non è casuale che sempre in questo periodo venisse celebrata a Roma "Tacita Muta", ovvero la ninfa laziale Lara (o Lala, "la Chiacchierona", stando a quanto ci tramanda Ovidio).
La sua storia è triste quanto emblematica. Quando si invaghì di Giuturna (che non ricambiava le sue attenzioni sessuali), Giove cercò di portare a termine la propria conquista servendosi dell'aiuto delle altre ninfe, che avrebbero dovuto trattenere la loro sorella, impedendole in questo modo la fuga. Le ninfe accettarono la proposta, ma Lara andò in giro a riferire il proposito del dio - raccontandolo perfino a Giunone in persona.
Giove, allora, si vendicò strappandole la lingua e affidando successivamente Lara a Mercurio, affinché la scortasse negli Inferi, dove avrebbe vissuto il resto della sua esistenza. Mercurio, durante il tragittò, violentò la ninfa, che, in seguito a questa violenza, diede alla luce gli dèi Lari.
L'espediente della lingua strappata per mettere a tacere una donna vittima di stupro (e dunque di affermazione del potere maschile sul mondo ctonio/femminile) è ricorrente nella mitologia greco-romana: si vedano, ad esempio, il mito di Filomela, Iti, Procne e Tereo e quello di Cassandra (a cui Apollo sputa sulla bocca, lasciandole sì il dono del vaticinio, ma negandole la possibilità di essere creduta: in questo senso, la parola della profetessa troiana è "inutile" - e dunque anch'ella è come se fosse stata resa muta dal potere maschile e supero delle divinità olimpiche).
Il silenzio di queste donne possiede una duplice valenza, che ben si colloca nel panorama di Candelora/Carnevale/pre-equinoziale: è un silenzio imposto; ed è anche (per contro e al contempo) un silenzio che contiene (e tramanda, nel suo esistere!) un messaggio di "Vita nella Morte/Morte nella Vita" che è insito in ogni religione misterica.
La parola negata di Lara è dunque da annoverarsi fra quelle testimonianze (preziose) dell'affermarsi del mondo ctonio su quello "supero", in determinati periodi dell'anno.

Tra Antesterie e Lupercalia


In riferimento al calendario, non si possono non menzionare le Antesterie, che si celebravano ad Atene nel mese di Antesterione - ovvero nel periodo oggi compreso tra febbraio e marzo.
Vi si celebravano Dioniso (il dio smembrato e poi risorto) ed Ermes ctonio. Tutti i templi restavano chiusi, ad eccezione del Limnàion, sacro a Dioniso.
Durante il primo giorno di festeggiamenti si aprivano gli otri di vino e nel secondo giorno si svolgevano vere e proprie "gare di bevute". Si cercava inoltre di propiziare la fertilità del territorio attraverso il rito simbolico della ierogamia. I giorni dedicati alle Antesterie erano considerati nefasti (nonostante il clima apparente di gioia e trasgressione - carnascialesco, oserei dire!) e si credeva che, in quell'occasione, le anime dei defunti tornassero a circolare tra i vivi. Esse venivano scacciate solo al termine della festa - per dare spazio ad un nuovo ciclo vegetazionale.

Anche i Lupercalia, che si tenevano a Roma nel mese di Februarius, erano riti di fertilità e, insieme, di purificazione e di separazione dei vivi dai morti.
I giorni dei Lupercalia erano dedicati a Luperco, antica divinità che rimanda sia al simbolo teriomorfo del lupo (di cui parlerò più avanti) sia a Pan Liceo e alle divinità maschili di (ri)generazione. Il 15 febbraio si sacrificavano dei capretti e un cane; i sacerdoti Luperci si bagnavano col sangue delle vittime, ne indossavano le pelli e, quindi, inseguivano le donne in età fertile, frustandole con liste di cuoio.

[Continua...]