sabato 30 aprile 2011

Dell'aquilegia di Calendimaggio


La mia Aquilegia di Calendimaggio.

Mi piace definire l'Aquilegia una "potenza in quiete"; nel senso che questa Intelligenza possiede potenzialità che sembra preferire tenere nascoste agli occhi dei più - e il dialogo, con lei, è sempre gentile, appena sussurrato. Occorre un udito allenato, per "ascoltare" l'Aquilegia. Non a caso è una pianta amatissima dai poeti e dagli artisti del passato.

Appare in numerose opere pittoriche, quasi sempre collegata con la figura della Madonna.
Secondo alcuni commentatori, infatti, questa pianta così delicata sarebbe il simbolo del dolore provato da Maria per la morte del figlio in croce. Questo per l'assonanza del nome francese dell'Aquilegia (ancholie) e il termine "melancholie", malinconia. Nell'arte pittorica del Rinascimento, l'Aquilegia venne spesso associata alla Passione di Cristo.
Si tratta, dunque, di un'Intelligenza consapevole.


Bernardino Luini, Madonna del Roseto (1505-1510).

Viene anche chiamata "colombina", per via dei sei fiori che crescono (a volte) in cima allo stelo: sarebbero, secondo l'interpretazione cristiana, i sei doni dello Spirito Santo menzionati in Isaia 11,2: «Lo Spirito del Signore riposerà su di lui: Spirito di saggezza e d'intelligenza, Spirito di consiglio e di forza, Spirito di conoscenza e di timore del Signore». Al di là di quanto affermato dai commentatori cristiani, è evidente, in ogni modo, la delicata "fortezza" dell'Aquilegia, quel suo saper "vedere", "conoscere" e "capire" senza cedere, al di là di ogni aspettativa. Perfino il suo aspetto, così apparentemente fragile eppure resistente a qualsiasi intemperia e ai rigori dell'inverno, è, a mio avviso, un indice evidente delle potenzialità di questa pianta.

Leonardo da Vinci ne aveva intuito in questo senso il potere evocativo e simbolico e la colloca ai piedi del suo Bacco (precisamente sotto il piede sinistro del dio) nell'omonimo dipinto, conservato oggi al Louvre.


Leonardo da Vinci, Bacco (1510-1515).

In questo caso, l'Aquilegia rappresenta il trait d'union tra il piano dell'Umano e quello del Divino, tra cui Bacco-Dioniso (il dio che risorge dalle ceneri) si muove costantemente.

Per quel che mi riguarda, coltivo la mia piantina di Aquilegia nel cortile retrostante la casa, quello più umido e ombroso. Non richiede cure particolari: come ho detto, è un'Intelligenza senza troppe pretese. Resiste a ogni inverno, a fine estate sparge i semi sul terreno (piccoli semi neri, che escono dopo "l'esplosione" dei grossi follicoli che si formano alla base del fiore) e così si espande sempre, generando in primavera fiori dai colori inaspettati.
Così ne scrivevo lo scorso anno, alla prima fioritura:

Ondeggia lenta l’aquilegia
nel vento caldo di maggio,
mossa dalle ali invisibili
dei naviganti:
pace dopo il dolore dell’inverno
e tregua dalla ricerca
dell’ordito consunto.

Ma non c’è danza o magia
che possa proteggerci
dalla luce bianca e terribile
di ogni primavera:
oltrepasseremo il canale
di acqua torbida
e saremo polvere
fra la terra arida del campo

sotto il sole.

Come sempre, la parola poetica (per quanto modesta, com'è nel mio caso!) è sempre più efficace di qualsiasi arraffazzonato commento...

Fino al XIX secolo, l'Aquilegia è stata utilizzata anche in campo erboristico, per le sue virtù calmanti, utili al sistema nervoso. Possiede altresì proprietà antisettiche, astringenti e detergenti. Se ne usano i semi, i fiori, le foglie e le radici; va tuttavia maneggiata con coscienza e competenza, poiché le parti aeree della pianta contengono una sostanza potenzialmente nociva (come accade per tutte le Ranuncolacee!).

Nome: Aquilegia vulgaris L. (detta anche, popolarmente, "amor nascosto", "fior cappuccio", "perfett amùr", "guant d'la Madona")
Famiglia: Ranuncolacee (finisco spesso a parlare di Ranuncolacee... chissà poi perché...)
Diffusione: nei boschi, nei prati, in zone rocciose e calcaree, fino ai 2000 m. di altitudine.
Descrizione: pianta perenne, alta dai 60 agli 80 cm. I fiori compaiono da maggio a luglio e possono essere di diversi colori: viola, rosa chiaro, bianchi-giallastri. La radice è fittonante.

giovedì 28 aprile 2011

Della magia antica - Parte II

I parte

La figura del mago nel mondo greco-romano

Nell'antichità greco-romana, il mago non è colui che si oppone alla religione ufficiale (come, invece, accadrà in Europa in epoca cristiana). Al contrario, il mago si relaziona direttamente con la divinità e la "parola magica" è, prima di tutto, parola divina. Allo stesso modo in cui il poeta è "invasato" dal dio (ne riceve la parola e la trasforma in linguaggio comprensibile all'uomo), il mago trasforma la parola "comune" in parola "magica" (incomprensibile ai più) e, non di rado, trascrive queste parole sulle statuette della divinità. Esistono ancora numerose tracce di simili defixiones, provenienti dai luoghi di culto della dea Demetra.
La magia, dunque, come mezzo (il mezzo più istintivo, profondo, non mediato dalla cultura "alta") per raggiungere il divino.


John Collier, La sacerdotessa di Delfi

Così almeno il mago era considerato dalla popolazione e dalla mentalità comune.
Una delle più preziose fonti a nostra disposizione in tal senso è l'orazione del retore e filosofo platonico Apuleio intitolata Apologia sive de magia e scritta in occasione del processo che il filosofo dovette affrontare intorno al 161 d.C.

Il De magia di Apuleio

Apuleio ha uno stretto rapporto con la tematica magica: fondamentale per studi e approfondimenti sull'argomento è altresì L'asino d'oro, in cui Apuleio descrive gli effetti devastanti sul protagonista Lucio (omonimo dell'autore - particolare non irrilevante) della temibile magia tessala, che saranno cancellati solo grazie all'intervento di Iside e in seguito all'ingresso di Lucio nei riti misterici dedicati alla dea.
Il De magia, al contrario, non è un'opera di invenzione, ma il resoconto del processo che Apuleio dovette affrontare, per difendersi dall'accusa di "magica maleficia", espedienti malevoli utilizzati, secondo gli accusatori (Sicinio Claro e Sicinio Emiliano), per sedurre e sposare la ricca vedova Emiliana Pudentilla e impadronirsi così del suo patrimonio.
Al di là dei fatti, il De magia risulta particolarmente importante per il ritratto che Apuleio fa del mago, calandolo nella società a lui contemporanea e definendo con precisione che cosa sia e non sia chi fa uso della maghéia.
Due sono quindi i principali assunti dell'opera:

1) la concezione popolare del mago (cui si è fatto menzione nella parte introduttiva di questo post);
2) la magia (se può essere in qualche modo accostata alla religione, come detto poco sopra) si differenzia nettamente dalla scienza e dalla filosofia.

La dicotomia fra filosofia e magia, fra filosofo (intellettuale) e vulgus (folla, popolo) è ben evidente nel De magia.
«Per Apuleio, la contrapposizione fra magia e filosofia traduce la contrapposizione fra cultura e ignoranza; e anzi, più precisamente, fra cultura urbana e ignoranza campagnola. Si tratta dunque di uno scarto sociale» scrive F. Graf a p. 81 del suo saggio La magia nel mondo antico. Con ciò, il cerchio si chiude: se la concezione popolare voleva che la magia fosse l'espressione più "autentica" del divino, ecco che risulta comprensibile come un filosofo - indagatore del divino in taluni casi - possa essere scambiato per un mago e accusato di "magica maleficia".

[Continua.]