giovedì 25 febbraio 2010

Del risveglio: le prime gemme, i primi fiori


Il mio primo crocus fiorito...

Mi piacciono molto, i bulbi. Affidarli alla terra alla fine della bella stagione, per vederli poi germogliare ad inizio primavera è ciò che sono solita definire un "rito consolatorio".
E' rassicurante ricoprirli con il terreno, affidandoli al Sonno: in genere, se il lavoro è stato fatto con cura, mantengono sempre la loro promessa.

Il bulbo, con la sua sfericità imperfetta, è un emblema silenzioso e discreto del tempo ciclico - così rassicurante, rispetto al tempo lineare.
La concezione lineare del tempo (tipica della nostra frenetica modernità) è una corsa verso il baratro; il tempo ciclico, al contrario, è il tempo dell'esperienza accumulata, della seconda possibilità sempre concessa. E' il tempo della calma che si oppone al tempo dell'affanno.

Penso a tutto questo, osservando i miei bulbi che hanno germogliato.
Li avevo affidati alla terra a novembre... e ora sono già in fiore.
Non sembra possibile che il tempo sia trascorso così velocemente e che anche questo lungo, freddo inverno stia volgendo al termine.
Ma tant'è.
Una nuova primavera è alle porte - e io non riesco a vedere il tempo trascorso come una perdita. E' piuttosto una nuova occasione, un nuovo tratto di crescita che ci viene concesso.
Il tempo dell'attività si alterna al tempo del riposo.


Giacinti in fiore sul davanzale della cucina...

Accade sempre così, in una Ruota Perpetua.

Troppi pensieri, per un singolo fiore?
Può darsi. Non importa.

Ora attendo i Semi: ho seminato la datura, la malva, la digitale e la salvia di Nyctea e l'aconito di mio padre. E sto a vedere. Aspetto, come occorrerebbe sempre saper fare...

Del risveglio: fuoco e vento

In questi giorni sono stata trattenuta da mille sciocche incombenze e non ho potuto scrivere come avrei desiderato.
In compenso ho riflettuto parecchio, lasciandomi guidare dai nessi e dalle analogie, come spesso mi piace fare.

L'ultima volta ho parlato dei serpenti.
Dai serpenti sono passata attraverso il sangue (che fino a pochi giorni fa bagnava la mia terra)

(il serpente è per me immagine ciclica per eccellenza e, come tale, è liquidità e fuoco al tempo stesso: distrugge e ricrea, crea e distrugge...)

per giungere sino al fuoco.

I serpenti dormono durante l'inverno, nelle loro tane scavate nella terra da altri animali;

(nell'umida oscurità dormono gli animali, i semi, i bulbi...)

solo con l'arrivo della bella stagione tornano in attività, distendendosi al sole nelle ore più calde e luminose della giornata.

Il fuoco, il sole, la luce abbagliante del meriggio...
A riguardo ho appena terminato di leggere I demoni meridiani, di Roger Caillois, un saggio che riguarda le apparizioni dei morti, dei daimones e del "divino" nell'ora funesta e magica del mezzogiorno, quando il sole è allo zenit e brucia impietoso, eliminando le ombre, rendendo tutto disperatamente luminoso.

Per te le fiamme luminose partoriscono l'alba del giorno; per te l'Oriente dalle dita rosate avendo misurato il polo meridiano sale poi afflitto fino alla sua sede; più oltre si fa incontro a te il tramonto.

(dal Papiro magico di Berlino)

In questi giorni mi sento molto attratta dalla luminosità intensa, dal fuoco che brucia, ricreando un nuovo ordine: non faccio altro che leggere libri e testi su questo argomento.
Si adattano bene con la strana ricettività che mi pervade: è come se avessi, infatti, tutti i sensi tesi a percepire il cambiamento.
Come quando ero bambina, mi viene spontaneo utilizzare in modo preponderante l'olfatto, per seguire le tracce del Risveglio.

Non lo sentite? E' nell'aria.
L'altra notte pioveva eppure, attraverso la finestra del bagno aperta, sentivo arrivare dai campi quell'afrore particolarissimo, di calore lontano e terra umida, di erba e legno fradicio della pioggia di fine febbraio...
E ieri (arriva sempre col buio, dalla campagna dietro casa), di nuovo. Eravamo da sole nella stanza io e Clizia, la mia gatta, e lei ha sollevato il muso verso la finestra spalancata (ci prenderemo un bel malanno, prima o poi... a causa dei nostri "invasamenti"!), annusando forte. Non era possibile non sentirlo. Ci chiama a gran voce, con pazienza millenaria...

lunedì 15 febbraio 2010

Dei varchi, della permanenza

Come spesso capita, le riflessioni che affido a queste pagine (e che trattano, seppure indegnamente, anche di argomenti importanti) nascono dai fatti del quotidiano, da piccoli avvenimenti su cui - in teoria - non bisognerebbe sprecare troppe parole. A me, invece, piace utilizzarli (o, per meglio dire, loro utilizzano me!) per sollevare veli, dischiudere porte, azionare il caleidoscopio colorato e movimentato dei pensieri...

L'altro giorno mi sono arrivate da correggere le bozze di un romanzo storico: il libro non è un capolavoro, è scritto in modo abbastanza dozzinale, con un pessimo utilizzo della punteggiatura... Unico pregio dell'autore, una caratterizzazione sapiente dei personaggi che, nonostante i difetti stilistici, mi ha catturata nella lettura più di quanto non consenta la professionalità di un redattore.
Il romanzo era ambientato nell'antica Sumer e, come sempre mi accade quando si tratta di popoli antichi, ho subìto prepotentemente il fascino di quelle culture ormai disperse fra le sabbie del tempo, del loro modo meraviglioso di intendere la religione e la maghéia.

Il "nodo" è qui: nel rapporto intimo con il passato, nell'inspiegabile sentirmi parte di un'epoca e di un luogo che non mi appartengono (almeno in apparenza). Queste sono le cose a cui pensavo mentre leggevo e correggevo, correggevo e leggevo... Ho ricordato le sensazioni sconvolgenti provate sull'Acropoli di Atene molti anni fa, ho ripensato ai varchi, di cui parlavo la volta scorsa.

"Porte" particolari fra questo mondo e l'Altro; fra il Presente e il Passato; fra il Vero Sé e il Falso Sé. Ignorare un varco aperto o, peggio, tentare di chiuderlo può essere pericoloso. Si interrompe il flusso, lo scorrere della linfa e si finisce per restare imprigionati in una "bolla di oscurità", sopraffatti dall'onda nera.

Credo che ciascuno di noi abbia i suoi mezzi prediletti per "passare" e per "scorrere" attraverso questi varchi. A volte mi piace chiamarli anche "metafore ossessive".
Io, ad esempio, ascolto la linfa nel sangue. E in questo mese di confusione e vaga tristezza, guarda caso, il mio sangue ha rallentato. Interrotto, spezzato. Come mi sento interrotta e spezzata io: non sento, non ascolto, non ne sono capace. Non questo mese.
E allora mi rivolgo al Serpente - altro simbolo a cui sono legatissima, ma a cui ricorro solo in certi momenti.


Lucien Levy Dhurmer, Eva

Non è forse liquido, il movimento del serpente?
Non c'è forse qualcosa di REALMENTE DIVINO nel suo essere schivo, quasi mansueto, a dispetto del veleno che reca in corpo? Morte nella Vita!
E non è forse in questa liquidità perfetta, in questo equilibrio perpetuo che si inserisce l'immagine del cerchio: la pelle che cambia, l'ouroboros! E così, avanti, a tamburo battente, ricercando segni, significati...

«Sua madre è un serpente, ed avverrà che ella ascolterà sempre le parole di sua madre, dei suoi fratelli e delle sue sorelle. Si avvicinerà, si avvicinerà per avere vendetta, e avverrà che distruggerà gli uomini, i nobili e i servi che sotto giuramento sono a servizio del re, tutti coloro che appartengono al re! Andrà ...a fare un bagno di sangue e non ne avrà vergogna!»

(Hattusili I Testamento)


martedì 9 febbraio 2010

"Where does your voice go when you're no more?"

Forse può essere stato frutto della mia immaginazione (sebbene sono quasi certo che non lo fosse) ma ebbi l'impressione che tutto l'entusiasmo per il gioco si fosse improvvisamente disciolto come brina al sole. Se a qualcuno fosse venuto in mente di proporre un altro gioco, sono sicuro che tutti quanti ne saremmo stati felici e avremmo abbandonato "Smee". Soltanto che nessuno lo fece. Nessuno pareva disposto a farlo. Per conto mio, e posso dire altrettanto anche a nome di altri, provavo l'opprimente sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato. Non avrei saputo dire che cosa ci fosse che non andava, e in realtà non me lo chiedevo neppure, ma in qualche modo il divertimento aveva perso tutto il suo brio e sul mio cuore indugiava un ammonimento come un'ombra, un sesto senso che mi avvertiva del fatto che in quella casa v'era un influsso tutt'altro che sano e positivo.

A. M. Burrage, Smee

Uno dei film che prediligo, Dust (ne parlavo già qui), ha come frase di lancio quella che ho riportato nel titolo: Dove va la tua voce quando non ci sei più?
Di recente mi è capitato di essere testimone (per interposta persona!) di un fatto strano e sono tornata a riflettere sul significato di certi "legami".
Non starò a raccontare in questo post tutte le esperienze "inspiegabili" capitate nella mia vita o in quella delle persone a me care.
Il pensiero che si fa strada con frequenza, in questi giorni, nella mia mente è decisamente poco concreto, legato più alle suggestioni che ai ricordi. Riguarda quella che io chiamo la volontà di permanere di energie, entità, anime.

Permanere: dal latino permanère, composto da "per" e "manere", rimanere, restare, durare.

Durare. Sconfiggere il tempo, per quello che è possibile. Riferito alle persone, naturalmente; ma anche ai luoghi.
Che cos'è che percepiamo in alcune case (quella tensione sottile, che provoca un nodo alla gola) o in un luoghi ben precisi?
Penso a Lucedio, è ovvio. E anche al vecchio prato di Camino, che oggi non esiste più.
Non è "vampiresca" (concedetemi il termine) questa volontà di permanere?
Non è forse il frammento del divino rimasto in noi? (Non è questo che afferma l'uomo mortale di fronte alla potenza funesta dell'angelo, nelle Duinesi di Rilke? Ah, ma sto divagando... L'appassionata di poesia sta prendendo il sopravvento su Canidia...)
Le mie riflessioni, questa sera, non hanno molto senso. Prendetele per quello che sono: semplici divagazioni.

Vorrei che il mio gatto non miagolasse così forte...

martedì 2 febbraio 2010

Della Candelora (epilogo)


I Lumi: fuoco, acqua e terra per il Risveglio... (La terra c'è, anche se non si vede...)

Eccomi, [...], commossa dalle tue preghiere vengo a te, io, la madre della natura, la signora di tutti gli elementi, l'origine prima dei tempi, la più grande tra gli dei, la regina dei morti, la signora dei celesti, l'immagine unificante di tutti gli dei e le dee; io che regolo secondo la mia volontà le luminose altezze dei cieli, le salubri brezze dei mari, i disperati silenzi degli inferi; e la divinità unica che io sono, il mondo intero la venera sotto diverse forme, con differenti riti e i nomi più vari. [...] Vengo a te [...] benevola e propizia...

(Apuleio, Le metamorfosi)


Giovane famiglio incuriosito...

Non sono sicura che sia stata perfetta (come avrei voluto), ma di certo è stata potente. Complici, forse, il sole e il cielo terso (anche se freddo) di questi giorni o la tranquillità della casa, rimasta immersa per molte settimane nel silenzio della stagione oscura. La campagna tace (ancora) e i Lumi brillano in questa atmosfera di attesa.
C. ha cucinato la Focaccia della Candelora (coi semi di finocchio, emblema dell'inverno che sta per finire), io ho bruciato foglie di elleboro, pianta che - col suo vigore - aiuterà a socchiudere i Battenti.
Per ogni Risveglio occorre sempre usare grande delicatezza...

(«Non si spengono le candele!»
«Perché?»
«Perché non ci appartengono: Lei le ha fatte accendere, Lei le spegnerà...»)

lunedì 1 febbraio 2010

Della Candelora


Una delle piante di elleboro selvatico fotografate durante l'escursione di ieri al Sacro Monte di Crea.

Ieri sono tornata ad andare per boschi. I segnali del Risveglio erano ovunque, nonostante fossi partita da casa animata da un certo scetticismo.
Oltre alle numerose pianticelle di elleboro selvatico (già in vegetazione!), che spiccavano col loro verde scuro fra le foglie di quercia cadute a inizio stagione, ho scorto le primule sulle pendici a margine sentiero (ancora gelate in superficie, ma che riuscivano a bucare la neve ghiacciata), le orme degli animali fra gli alberi, nel fango e nella neve.

Al rientro, trepidante, ho messo in vaso l'elleboro raccolto e, dopo cena, sono uscita per dare da mangiare a Holden, il nuovo arrivato (un gatto bianco e rosso che ho chiamato così perché è arrivato nel mio cortile la notte in cui è morto J. D. Salinger) e per spargere briciole per i passeri del Grande Alloro.

Da tempo non ero più così percettiva: sarà che ho dormito a lungo - ne sono consapevole.
Da tempo non ascoltavo e com-prendevo con questa nitidezza.


Una veduta dal Bosco di Crea.

L'altra notte e la scorsa, ancora sogni. Di quelli che fanno palpitare il cuore.
Nel primo, c'era un campo di grano, appena fuori da casa mia. Un campo che era letteralmente invaso da uccelli di ogni tipo: rapaci sconosciuti dai colori sgargianti, dotati di lunghe code da pappagallo e becchi lucenti; insettivori dal piumaggio coloratissimo; passeri simili a colibrì, che sfrecciavano sopra le spighe (di nuovo, il campo di grano... un'immagine così ricorrente del mio inconscio!) trillando con voce cristallina.
Osservavo immobile quel tripudio di vita, con le mani congiunte in un gesto di reverente stupore. «Guarda! Oh, ma guarda!» ripetevo.
Nel secondo, i topi: possedevo una grande cascina, dotata di un ampio cortile. E questo cortile era punteggiato di tane di topi, che sbucavano dalla terra battuta come formicai. Erano topolini rossi, molto vivaci. Erano innumerevoli. La gente (c'era qualcuno intorno a me, ma non ricordo chi fosse) mi diceva che avrei dovuto sbarazzarmene, ma io mi tenevo ben cari i miei guizzanti topolini.
L'immagine del brulichìo si riaffaccia alla mia coscienza proprio in questo momento: il brulichìo è Vita e Morte al tempo stesso e, come tale, concede a chi lo percepisce una frenesia inestinguibile.

Vedere, conoscere, ritornare alla luce, danzare. Ballare in cerchio, là dove il Bosco è più fitto.
Candelora! Candelora!


P. Lindahl, The Dance of the Witches