giovedì 29 gennaio 2009

Della fascinazione del sangue - parte I

Ci sono immagini, situazioni, elementi, oggetti e animali che tornano di frequente a farmi visita, nei sogni e nelle poesie, simili a "metafore ossessive" (C. Mauron), a orme che devo seguire se voglio arrivare a comprendere - almeno in parte - la Forza che spinge i miei passi su questa terra.

Uno di questi è senza dubbio il sangue.
Ci penso spesso - e ne parlo altrettanto sovente nei miei scritti.
E' il suo calore (rapido a svanire) ad affascinarmi, la sua viscosità tiepida, foriera di vita.
Nel sangue si muore - e dal sangue si (ri)nasce, come dalle ceneri di una tremenda fenice.
Questo pomeriggio, mentre tornavo a casa in macchina, ascoltavo per radio la lettura di un passaggio di Diceria dell'untore.
Si trattava, per la precisione, della scena in cui Marta muore, in un accesso provocato dal suo male, la tubercolosi. Nel descrivere l'emottisi, Bufalino parla di "colore portentoso del sangue", quasi si trattasse dell'improvvisa rivelazione di misteri insondabili.
Portentoso: un aggettivo perfetto e assoluto, per descrivere il sangue - filo scarlatto di congiunzione tra la Vita e la Morte.
E' quanto accade col vampirismo, sia nei racconti dell'antichità classica, sia nelle leggende rielaborate dopo l'avvento del cristianesimo.
In alcuni racconti medievali, addirittura, il sangue è viatico per la lebbra, malattia che, per eccellenza, era simbolo di morte fisica e spirituale, poiché corrompeva la carne allo stesso modo in cui il peccato divorava l'anima umana.
Attraverso il sangue (e il suo spargimento, per quanto crudele o raccapricciante esso possa essere) si ribadisce contro la Morte la caparbietà della Vita.
Né è un caso che i primi grandi vampiri (le Lamie, Lilith ecc.) fossero donne: dalla Ctonia noi attingiamo vita e nel suo grembo (caldo, pulsante, oscuro - come lo è il sangue) noi ritorniamo, per risorgere (sotto quale forma non ha qui importanza) nel ciclo eterno.

Mi tornano alle memoria, richiamate dalle parole che sto scrivendo, alcune scene di Dust, un film che quasi nessuno conosce e a cui, invece, io ritorno periodicamente, in una sorta di "pellegrinaggio" intellettuale e analitico .

[Qui la scena finale del film.]


Un'immagine da Dust, di M. Manchevski: Neda è la donna che morirà dando alla luce la propria bambina, nel mezzo di una sparatoria.

Dust è un film cruento, quasi fastidioso nella semplicità feroce delle scene di violenza offerte allo spettatore.
Sparatorie in perfetto stile western nel corso delle quali si vede il sangue sprizzare ovunque; animali e uomini sventrati, che riversano nella polvere le loro interiora; teste e arti mozzati; ragazzini che rischiano lo stupro. Sputa sangue per buona parte della pellicola perfino il protagonista, seriamente ferito per mano del fratello.
Tuttavia quel sangue versato si rivela fondamentale, per non dire necessario, nella composizione di un quadro più ampio che lascia spazio a un accenno di speranza: dalla giovane donna colpita a morte, distesa sulle rocce sotto il sole - dal suo sangue versato sulla terra e da quello dell'uomo che per consentirle di partorire si fa uccidere dai nemici - avrà inizio una nuova vita, capace di valicare i limiti spazio-temporali della vicenda narrata e di tramandarsi in eterno, grazie al potere salvifico della parola.
Potere di cui, concedetemelo, parlerò in un altro articolo...

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